Ovodonazione e madre naturale
Non condividere le informazioni genetiche con il bambino è una delle prospettive emotivamente più impegnative e difficili di un percorso nell’ambito della procreazione medicalmente assistita e la maggior parte delle donne che ricorrono all’ovodonazione sono convinte del fatto che i loro bambini non gli assomiglieranno mai in quanto gli embrioni generati da ovociti donati contengono solo il DNA del padre e della donatrice.
Il ruolo dell’epigenetica nei trattamenti di ovodonazione
Oggi però, studi di epigenetica, la branca della genetica che studia le mutazioni genetiche e la trasmissione di caratteri ereditari non attribuibili direttamente alla modificazione nella sequenza del DNA, hanno chiaramente dimostrato che la relazione tra madre e feto è in grado di incidere sul patrimonio genetico del nascituro anche nel caso di donne che devono ricorrere alla fecondazione eterologa e che l’ambiente uterino prenatale svolge un ruolo cruciale nello sviluppo del cervello fetale, nel metabolismo infantile, nella salute immunitaria e in numerosi altri fattori.
Baker, un epidemiologo inglese, già nel 1990 disse che “ciò che accade nell’utero è più importante di ciò che accade dopo la nascita”.
Ogni ovocita contiene un proprio patrimonio genetico, che è esclusivo e che deriva dal rimescolamento dei geni dei nostri antenati. Pertanto, il nostro DNA è parzialmente analogo a quello dei nostri genitori, nonni, zii, cugini, ecc. con i quali condividiamo delle sequenze che sono alla base delle somiglianze nell’ambito familiare anche se ogni singolo ovocita ha un patrimonio genetico differente da quello di tutti
gli altri. Anche nella stessa donna.
Tuttavia il DNA, anche se è assicura il mantenimento nel tempo dell’identità degli individui e delle specie, non è una molecola statica ma dinamica. Infatti, anche sotto la spinta del nostro stile di vita, si modifica nel corso di tutta la nostra esistenza essendo in una sorta di equilibrio dinamico con l’ambiente.
Questa sorta di modellamento dei geni è un processo che dura tutta la vita: dal concepimento alla morte.
Sebbene una ricevente non apporti geni materni al bambino, è per gran parte lei a condizionarne la regolazione della loro espressione, come la attivazione o repressione, e quindi ha un profondo impatto sulla modalità in cui i geni di quel bambino funzioneranno durante l’intera vita di quell’individuo.
Somiglianze e differenze: non importa quanti geni hai ma come li usi
il genoma umano è composto da circa tre miliardi di basi, la cui sequenza forma l’insieme delle istruzioni che servono per produrre in modo finemente regolato le proteine che permettono alle cellule e dunque ai tessuti e agli organi del nostro corpo, di assumere quella determinata forma, struttura e funzionamento.
Il nostro genoma è composto da circa 20/22.000 geni che codificano per la sintesi delle proteine (DNA codificante) e che corrispondono solo al 2% di tutto il nostro DNA mentre il restante 98%è costituito da DNA non codificante che ha il compito di regolare l’espressione dei geni, cioè stabilire se (e quanto) un gene deve essere attivo, e quindi produrre la proteina corrispondente, oppure inattivo.
Dato che nelle cellule di un individuo i geni sono sempre gli stessi, è proprio la regolazione dell’espressione genica a far sì che cellule e tessuti diversi (nervose, immunitarie, epatiche, muscolari e così via) svolgono funzioni diverse o si comportino in modo diverso in momenti differenti della nostra vita.
La cosa straordinaria è che non solo noi condividiamo con qualsiasi altro essere umano il 99.9 per cento del patrimonio genetico, ossia la sequenza dei geni è praticamente identica per ogni persona al mondo, ed è ciò che caratterizza la specie umana, ma condividiamo il 98,8 per cento delle sequenze di Dna codificante con gli scimpanzé e i bonobo e il 98,4 per cento con i gorilla; il 90% con il gatto e l’85 per cento con il topo la mucca. E condividiamo tra il 40 e il 60 per cento di Dna con la banana.
Quello che ci rende unici, giustificando quelle caratteristiche che rendono ciascuno di noi differente dagli altri, è dato solo da quel restante 0,1% che, anche sotto la spinta dell’ambiente contribuisce a plasmare la nostra individualità.
In una stessa specie la “struttura” del DNA è identica: cioè i geni che codificano per quella determinata proteina si trovano sempre nelle stesse identiche posizioni sulla “mappa” dei cromosomi, (salvo alcuni tipi di mutazione), anche se “assortiti” in combinazioni diverse.
Questo è uno dei motivi per cui gli esseri umani anche appartenenti a luoghi o etnie diverse presentano sempre la stessa compatibilità genetica e interfecondità.
Viceversa, confrontando individui di due specie diverse, ad esempio uomini e macachi, i geni che codificano per quella determinata proteina, oltre ad avere assortimenti diversi, possono avere anche una struttura diversa, non esserci o essere inattivi e/o occupare parti diverse del genoma. E per questo in genere tra specie diverse è altamente probabile l’impossibilità di generare una prole ibrida, oppure che questa sia a sua volta sterile.
In generale, più le specie sono affini, più la differenza in questa struttura è minima, anche se esistono alcuni geni che anche dopo miliardi di anni di evoluzione sono rimasti pressoché inalterati e li troviamo esattamente identici nell’uomo come nei batteri.
Ad oggi non sono state ancora scoperte in natura specie viventi che non hanno alcun gene in comune con altre: sarebbe una forma di vita extraterrestre, o che si è evoluta da zero in modo del tutto separato rispetto all’albero tassonomico noto dei viventi.
L’UTERO IN CASO DI OVODONAZIONE E’ SOLO UN “CONTENITORE”?
La risposta è: NO!
Ci sono diversi momenti delicati durante lo sviluppo umano. Il periodo preconcezionale (o tempo prima della gravidanza) e il periodo post natale (il periodo successivo alla nascita) giocano un ruolo importante nella salute del bambino. Tuttavia, il momento più cruciale nello sviluppo umano è il tempo che un bambino trascorre nell’utero. Questo periodo è noto come finestra prenatale.
L’embrione umano, quando entra nella cavità uterina e viene a contatto con il fluido endometriale, inizia a subire modificazioni complesse che ne influenzeranno il suo sviluppo e la vita postnatale e la trasmissione di molecole tra la donna e l’embrione avviene già prima che si impianti nell’endometrio.
In questo processo sono coinvolte le molecole di microRNA secrete nell’utero della donna ricevente che possono incrementare o ridurre l’attività dei geni dell’embrione. Questi microRNA agiscono come un sistema di traduzione riprogrammando la trascrizione e l’adattamento dei livelli di attività dei geni durante lo sviluppo intrauterino e per tutta la vita, dando al bambino determinate caratteristiche.
Durante l’impianto, poi, si instaura una relazione bidirezionale con l’endometrio in cui il fluido viscoso secreto dalle ghiandole endometriali nella cavità uterina costituisce il microambiente che consente all’embrione di assorbire alcune informazioni genetiche della madre sia morfologiche che strutturali.
In ogni caso, sicuramente il periodo di gestazione di quell’embrione, benché la componente femminile sia stata donata, crea un legame fisico e psico emotivo assai profondo con la madre.
In conclusione, le mamme che ricevono un’ovodonazione non sono solo un contenitore ma sicuramente danno qualcosa di importante di sé al piccolo.